Analisi di scenario

L’analisi di scenario consente, come la composizione dei pezzi di un puzzle, di far emergere un’immagine che altrimenti rimarebbe celata. I tre pilastri dell’analisi di scenario sono: la Macroeconomia, la Geopolitica, la Tecnologia. L’immagine di scenario che emerge consente di assumere delle decisioni di natura strategica con maggiore consapevolezza e visione.

MACROECONOMIA:

Giugno si è rivelato un altro mese di tensioni ed incertezze geopolitiche e commerciali. Nonostante l’accordo USA-Cina dell’11 giugno sia stato confermato da entrambi le parti il 27 giugno, gli impatti di disruption sulle supply chains risultano già evidenti per entrambe le economie. Forte riduzione dell’export cinese verso gli Stati Uniti e limitazioni di Pechino all’export di magneti e terre rare, che hanno creato stress alle industrie europee, in particolare al settore automotive. Una situazione che mostra nuovamente gli effetti indiretti della guerra commerciale e l’interconnessione delle economie e delle catene di valore globali. Stiamo andando verso una nuova forma di globalizzazione che non sarà più “iper”, bensì formata principalmente da nuovi blocchi commerciali, dove i concetti centrali saranno il nearshoring e friendshoring. Quindi non più commerciare incondizionatamente con chiunque per scopi di efficienza economica, bensì con i Paesi vicini e con quelli di cui ci si fida maggiormente. In questa ridefinizione delle relazioni commerciali internazionali, silenziosamente si muove la Cina. La quale cerca di contrastare la fase di deflazione (PPI -3,3% e CPI -0,1% su base annua a maggio). Mentre Trump mette i dazi, Xi li toglie ai paesi africani; Pechino riversa il suo surplus produttivo su altre economie (export a maggio verso gli USA -34.5% annuo, +14.8% verso il Sud-Est asiatico, +12% verso l’Europa e +33% verso l’Africa). Un reindirizzamento dell’export cinese che è particolarmente preoccupante per l’industria europea. Infatti, già Maroš Šefčovič (commissario Ue al Commercio) avverte che serve uno scudo contro le importazioni dalla Cina ammonendo che “la crescita di Pechino non avvenga a scapito delle nostre aziende”. Un’invasione di merci cinesi a basso costo creerebbe un’ondata deflattiva nell’Eurozona. È la classica “guerra dei prezzi” cinese (bassi per PPI in discesa e consistenti sovvenzioni pubbliche) per spiazzare i competitor al fine di inglobarli e monopolizzare il mercato (vedi l’accaduto nel mercato delle terre rare), ed in seguito imporre i nuovi prezzi (potenzialmente molto più elevati) e le condizioni di mercato. I cinesi agiscono senza fare rumore, ma si insinuano nei mercati esteri destabilizzando i competitor e portando in seno un’ondata deflattiva che, da sottolineare, sarà temporanea perché all’interno di un cambio di paradigma strutturalmente inflattivo. Restando sull’argomento inflazione In Europa al momento è giudicata contenuta e la BCE si appresta a terminare questo ciclo di politica monetaria caratterizzato da progressivi tagli ai tassi d’interesse. Per il momento i mercati finanziari non hanno reagito agli sconvolgimenti Mediorientali. Anzi, si sono mossi nella direzione opposta a quella che ci si sarebbe potuto attendere: prezzo del petrolio volatile ma non in crescita e Borse ai massimi storici, nonostante l’aumento dei rischi. In quanto, come riporta Antonio Cavarero (Head of investments presso Generali Asset Management), nello scenario peggiore il prezzo del greggio potrebbe superare i 100 dollari a barile, con un impatto stagflazionistico sulle economie avanzate. Contrariamente alla BCE, la FED rimane ancora ferma ritenendo di dover rimanere cauta in vista delle rivalutazioni piuttosto negative delle proiezioni economiche e per vedere le evoluzioni degli impatti dei dazi, anche se le ultime dichiarazioni di alcuni suoi membri (tra cui lo stesso presidente Powell) fanno ritenere che la ripresa della fase espansiva di politica monetaria possa essere vicina. La persistente divergenza sui tassi d’interesse tra USA ed Eurozona non giustifica la prosecuzione del rafforzamento dell’euro, motivato invece da flussi finanziari, in quanto i capitali che escono dagli USA continuano a dirigersi in Europa. Movimento che sta generando un effetto negativo sulla manifattura europea come l’applicazione dei dazi (damping valutario). rendendo i prodotti importati dal Vecchio Continente meno competitivi per il mercato a stelle e strisce.

GEOPOLITICA:
L’America colpisce l’Iran”. Così titolava l’articolo di apertura della giornata lo scorso 22 giugno il New York Times. Il mondo si è risvegliato in una sorta di incubo, quello che la “Terza Guerra Mondiale” stesse ormai per concretizzarsi nella realtà. Niente di più sbagliato. Gli Stati Uniti hanno certamente condotto un raid sui principali siti di arricchimenti dell’uranio iraniano con una dimostrazione di forza imponente, ricorrendo ai loro sistemi d’arma più annichilenti (e spettacolari), i sette bombardieri stealth B-2 Spirit, costati 2,1 miliardi di dollari ciascuno. Ma nonostante l’amministrazione americana si sia affrettata a dichiarare conclusa la “guerra dei 12 giorni” tra Iran e Israele, gli attacchi contro i tre impianti nucleari iraniani potrebbero non aver distrutto i componenti principali del programma nucleare del Paese, ritardandolo solo di qualche mese, secondo una prima valutazione dell’intelligence statunitense. In sintesi, mission-not-accomplished: gli americani non si sono premurati di fabbricare prove abbastanza solide da convincere il resto del mondo dell’avvenuta distruzione dei siti nucleari, tentando invece di chiudere il più in fretta possibile l’escalation. Sintomo che un conflitto mondiale non solo non è ancora in vista, ma che gli Stati Uniti non sono affatto disposti a combatterlo per il Medio Oriente. Il quadrante Indo-Pacifico rimane il contesto di più alto interesse strategico per Washington e lì devono essere reindirizzate armi, risorse, uomini e attenzioni. Tutto il resto (Ucraina, Iran, Russia) sono distrazioni tattiche che rischiano di rallentare il processo di contenimento della Cina. Allo stesso tempo, però, l’attacco ai siti nucleari iraniani ha fatto emergere un’altra necessità geopolitica americana: quella di non mostrarsi troppo debole agli occhi del mondo. Ecco che quindi i raid ai siti di Fordow, Isfahan e Natanz potrebbero essere letti come elementi di una mossa obbligata per ristabilire una credibile deterrenza e lanciare un messaggio ad amici e nemici. Gli Stati Uniti sono ancora in grado di ottenere risultati militari concreti, nonostante il fallimento delle operazioni contro gli Houthi dello Yemen. Ma riacquisire una parvenza di affidabilità nella tumultuosa epoca Trump non sarà facile per Washington e alcuni deboli segnali di stanchezza ci sono già. Il summit di fine giugno dell’Alleanza Atlantica, ad esempio, che prevedeva di rafforzare la cooperazione tra la regione euro-atlantica e quella indopacifica, si è ridimensionato nella partecipazione a causa dell’assenza dei massimi vertici di Giappone, Corea del Sud e Australia, in aperta polemica con gli Stati Uniti. Segno che gli alleati americani del Pacifico sono sempre meno propensi a credere nell’ombrello difensivo americano in ottica anticinese? Sicuramente alcuni di questi Paesi preferiscono intessere buoni rapporti con Pechino. Fra il neoeletto presidente della Corea del Sud Lee Jae-myung che ha concordato di rafforzare i legami strategici con la Cina e migliorare la cooperazione regionale, e il Vietnam che è entrato a fare parte dei BRICS come partner strategico, il riallineamento geopolitico globale è ufficialmente iniziato. Nel frattempo, le faglie che continuano ad aprirsi non rimangono inerti. Secondo le stime risalenti al 20 giugno del Maritime Information Cooperation & Awareness Center sono state 970 le navi che hanno quotidianamente subito interferenze GPS durante la navigazione nello Stretto di Hormuz, teatro principale dei recenti scontri mediorientali.  I dati della società di intelligence marittima Kpler mostrano inoltre che il traffico complessivo su quella rotta è comunque diminuito dal 13 al 22 giugno anche in assenza di un blocco volontario dello stretto da parte dell’Iran. A dimostrazione che, anche se impercettibili, gli effetti destabilizzanti dei conflitti sono tutt’altro che irrilevanti anche per le nostre latitudini, che dagli stretti marittimi continuano a dipendere per il commercio di beni ed energia.

TECNOLOGIA:

La recente guerra tra Israele e Iran ha introdotto un nuovo paradigma di conflitto ibrido, definito non solo da attacchi cinetici, ma da decisioni prese tramite intelligenza artificiale (A.I.), sabotaggi digitali e sistemi d’arma autonomi. Le operazioni militari israeliane del 2025 contro l’Iran, e le precedenti in Gaza, segnano il primo impiego su larga scala dell’A.I. come decisore sul campo di battaglia, non solo come supporto. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) utilizzano oggi sistemi che automatizzano l’identificazione, la priorità e l’esecuzione dei bersagli—spesso con supervisione umana minima o assente. Secondo il Georgetown Security Studies Review (2025), Lavender e Gospel costituiscono una doppia struttura algoritmica per il targeting umano e infrastrutturale. Lavender analizza metadati di comunicazione, geolocalizzazione, reti sociali e modelli comportamentali per generare liste di obiettivi fino a 37.000 individui, con un tasso stimato di errore del 10% (!). Gospel automatizza invece l’identificazione di depositi d’armi, tunnel e infrastrutture missilistiche. Questo sistema ha fornito a Israele un vantaggio a velocità-macchina, comprimendo il ciclo tradizionale OODA (Osserva–Orientati–Decidi–Agisci) in millisecondi—ma offuscando i confini tra necessità militare e convenienza algoritmica. Parallelamente, Israele ha introdotto Iron Beam, un sistema di difesa laser da 100 kilowatt progettato per intercettare droni e razzi a un costo di soli 3–5 dollari per colpo, rispetto ai 40.000–100.000 dollari dei missili Iron Dome. La fusione tra targeting A.I. e Difesa a energia diretta mostra come Israele stia evolvendo verso un campo di battaglia definito dal software, in cui costi, energia e tempi di risposta vengono ottimizzati drasticamente. Il modello operativo israeliano sta rapidamente attirando l’attenzione di alleati e avversari. Russia e Cina stanno studiando il potenziale asimmetrico degli sciami di droni guidati da A.I.. La strategia iraniana basata su lanci di massa e disturbi di segnale nel giugno 2025 evidenzia un adattamento difensivo a uno spazio aereo saturato dall’A.I. Tuttavia, questa frammentazione tecnologica comporta rischi: gli Stati correranno per sviluppare sistemi di A.I. sovrani, aggirando le norme e i controlli occidentali. In assenza di quadri etici condivisi (come la “Dichiarazione politica sull’uso militare responsabile dell’A.I.” proposta dagli Stati Uniti), la guerra algoritmica potrebbe proliferare verso attori non statali o regimi autoritari, normalizzando uccisioni preventive tramite algoritmo. Il disturbo dei segnali GPS durante il conflitto ha avuto ripercussioni anche sul traffico aereo civile, causando disservizi nell’area del Mediterraneo orientale e influenzando i voli da Grecia, Italia e Israele. Le implicazioni strategiche sono chiare: i segnali spaziali sono colli di bottiglia vulnerabili. Alcune compagnie aeree hanno deviato o sospeso i voli; almeno tre navi mercantili hanno perso la navigazione nello Stretto di Hormuz. I militari possono sfruttare queste tecnologie non solo per accecare il nemico, ma anche per generare caos economico e civile. L’intreccio tra infrastrutture civili e militari diventa la nuova normalità del conflitto digitale. La guerra non si definisce più con i missili, ma con la potenza di calcolo. Gli Stati Uniti stanno militarizzando le infrastrutture cloud, mentre Ucraina e Taiwan schierano droni autonomi che operano senza input umano né connessione satellitare. La NATO investe su edge-AI, in grado di prendere decisioni sul bersaglio direttamente a bordo—resistente a jamming e attacchi informatici. Questo segna il passaggio verso una guerra decentralizzata e guidata dall’A.I. che frammenta l’equilibrio globale in blocchi tecnologici: chi possiede i propri stack di A.I. e chi ne dipende. In assenza di una governance globale, queste tecnologie rischiano di diffondersi senza controllo. La nuova corsa agli armamenti è già iniziata—non per bombe, ma per algoritmi e autonomia.

SINTESI DI SCENARIO:

Il conflitto tra Israele e Iran ha segnato il passaggio dalla guerra convenzionale alla guerra algoritmica, dove sistemi di targeting basati su A.I. e sabotaggi digitali ridefiniscono il concetto stesso di potere militare. Questo spostamento verso un conflitto a velocità-macchina introduce nuovi rischi e asimmetrie, soprattutto per gli attori non preparati ad affrontare minacce autonome e decentrate. Parallelamente, le tensioni tra Stati Uniti e Cina frammentano i flussi commerciali globali. L’esito controverso dell’accordo di Londra e la prosecuzione dello stato di tensione tra le due superpotenze stanno già impattando sulle industrie europee—automotive in primis—a causa della crisi delle terre rare e dell’instabilità dei prezzi. Sul piano macroeconomico, la divergenza tra la BCE (più espansiva) e la Fed (più prudente) accentua l’instabilità. Il rafforzamento dell’euro, spinto da flussi finanziari e non da fondamentali, compromette la competitività dell’export europeo. In questo scenario, concetti come nearshoring, sovranità tecnologica e autonomia energetica sono segnali strategici per analisti ed investitori. La nuova realtà è quella di una “globalizzazione frammentata”, dominata da blocchi tecnologici regionali, guerre digitali e filiere adattive. Il potere, nel nuovo ordine, non dipenderà solo da risorse naturali o spesa militare, ma da chi controllerà capacità computazionale, resilienza infrastrutturale e autonomia algoritmica su larga scala.

02/07/2025

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