Bond emergenti, non per tutti

Tra le forme di investimento di natura obbligazionaria che hanno preso piede nei portafogli globali si evidenziano i sottostanti emergenti. La caratteristica di base di questa asset class è che i Paesi che emettono le obbligazioni non sono sviluppati, ma bensì in via di sviluppo. Ne consegue, anche intuitivamente, che il rischio associato a queste obbligazioni deve necessariamente essere elevato, in quanto non sono rari i casi in cui l’emittente non riesce ad onorare fino in fondo gli impegni di ripagare il debito emesso in precedenza. La conseguenza diretta di questa maggior rischiosità, rispetto alle obbligazioni emesse da Paesi sviluppati, è il maggior rendimento che viene offerto a chi sottoscrive il debito emergente. Il differenziale di rendimento dei bond emergenti verso i Paesi sviluppati può anche essere consistente, ma è una variabile che tende ad oscillare molto nel tempo. Ci sono così periodi in cui i rendimenti associati ai bond emergenti sono relativamente vicini a quelli dei Paesi sviluppati, ed altre fasi (come quella attuale) in cui il delta di rendimento è molto favorevole.  Esistono peraltro grosse differenze da Paese a Paese emergente, in base alla fiducia che gli operatori internazionali nutrono verso l’uno o l’altro.

Il grafico sopra evidenzia l’andamento tra un indice rappresentativo dei bond emergenti in dollari Usa (linea bianca) e un benchmark del Paesi sviluppati, sempre in dollari (linea arancione). Alta volatilità e alti rendimenti nel primo caso, più stabilità e meno performance nel secondo. Se i bond emergenti in dollari, in termini di indice, hanno offerto all’investitore dal 2000 ad oggi l’8% annuo (valore da cui bisogna scalare i costi degli strumenti finanziari utilizzati), le obbligazioni dei Paesi sviluppati si sono fermate a poco più della metà come rendimento. Ma ad esempio durante il 2008 queste ultimo sono tracollate (-50% circa in pochi mesi), mentre i bond sviluppati hanno retto molto bene il colpo.

Considerata la complessità di queste scelte, è bene che l’investitore non assume scommesse su singoli Paesi emergenti, ma si affidi a prodotti ben diversificati, in grado di spalmare il rischio in modo efficiente su decine o centinaia di differenti posizioni. All’interno dei prodotti diversificati che permettono di cogliere le opportunità di questa forma di investimento, in primis gli Etf e i fondi, si segnala che solitamente il rischio principale è legato alla scadenza mediamente lunga dei bond sottostanti (duration anche di 7-8 anni) e alle valute. I tassi di cambio dei Paesi emergenti evidenziano infatti enormi oscillazioni, anche dell’ordine del 30% annuo, e spesso giocano a sfavore. L’insieme dei precedenti fattori suggerisce che l’orizzonte temporale dell’investimento debba essere pluriennale, solitamente attorno ai 4-5 anni. E’ infatti sul lungo termine che è possibile incassare l’extra-rendimento dei bond emergenti rispetto ai bond dei Paesi sviluppati. Guardando ai rendimenti di breve, può invece capitare di andare incontro a pesanti perdite, determinate da oscillazioni sfavorevoli delle valute emergenti o da una impennata dei rendimenti di mercato, che penalizza i bond già emessi.

Il rischio valutario derivante dagli investimenti in prodotti legati ai bond emergenti può peraltro essere mitigato, ma non a costo zero. Si possono infatti assumere tre differenti posizionamenti in merito al rischio di cambio:

  • Rischio di cambio derivante dalle valute emergenti presenti nel portafoglio, ad esempio real brasiliano, lira turca, peso messicano, etc. In questo caso si va incontro alla massima volatilità, ma anche ai rendimenti attesi potenzialmente più elevati (oggi superiori al 6% annuo), che storicamente però non hanno premiato in modo sistematico.
  • Rischio di cambio derivante dal dollaro Usa, in quanto i bond emergenti possono essere emessi (ovvero denominati) in dollari Usa anziché in valute emergenti, anche se derivanti da nazioni in via di sviluppo. Ad esempio il Brasile può optare per emettere debito in valuta locale, il real brasiliano, piuttosto che direttamente in dollari Usa. In questo caso l’investitore si dovrà preoccupare solo delle oscillazioni dell’euro verso il dollaro, molto più contenute di quelle delle valute emergenti, ma ciò si rifletterà in un minor rendimento atteso (oggi attorno al 5,5% annuo) per la sola componente cedolare.
  • Assenza di rischio di cambio, derivante da strategie di copertura che il gestore del prodotto finanziario applica sui sottostanti in portafoglio. In questo caso (possibile peraltro solo per le emissioni originarie in valuta forte, come il dollaro Usa) il fattore cambio viene immunizzato, e la volatilità cala notevolmente; di pari passo scende però il rendimento atteso, in quanto il costo di hedging può essere anche molto elevato (oggi prossimo al 3% annuo), vanificando di fatto la natura dell’asset class in termini rendimento-rischio.  

Un altro fattore di rischio importante per i Paesi, e le valute, emergenti è rappresentato dal prezzo delle materie prime, e in alcuni casi del petrolio in particolare. Spesso i Paesi emergenti dipendono in termini di bilancia dei pagamenti dalle commodities che esportano, e il crollo dei prezzi di tali elementi può determinare problematiche. Importante infine il livello dei rendimenti del dollaro Usa, che può essere considerato come il benchmark verso cui i Paesi emergenti devono quotare a spread (ovvero dare maggior rendimenti) per attirare gli investitori internazionali. Un forte rialzo nei rendimento della curva del dollaro deve necessariamente riflettersi in un parallelo aumento dei rendimenti emergenti, che significa tracollo delle quotazioni, come osservato nella primavera del 2013. La pazienza è la parola d’ordine per chi punta su questa asset class.  

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