L’evoluzione degli Etf Smart Beta

Una diatriba da decenni esistente tra gli operatori finanziari interessa la scelta di prodotti a gestione attiva o passiva. Nel primo caso l’obiettivo è identificare i gestori, e quindi i fondi o le linee di gestione, che hanno buone chance di battere il mercato, sfida tutt’altro che ardua anche solo per l’alternanza annua dei risultati (chi ha fatto bene un anno è probabile faccia male l’anno successivo, e viceversa). Nel secondo caso l’obiettivo dello strumento finanziario, l’Etf, è di copiare semplicemente un indice, e restituire all’investitore finale lo stesso rendimento del benchmark su cui si è puntato, senza pretese di fare meglio della media del mercato quindi. Come sappiamo, sul lungo termine vince l’Etf, per via del fatto che costa pochissimo e tale risparmio riesce a compensare l’eventuale perdita di efficienza gestionale rispetto alle gestioni attive. Non è un caso che negli ultimi anni la quota di mercato di Etf si stia espandendo enormemente a scapito delle gestioni attive.

Ma anche il mondo degli Etf si sta evolvendo notevolmente, cercando di soddisfare le richieste degli investitori. Gli Etf che vengono denominati Smart Beta (o Strategic Beta) sono sostanzialmente una via di mezzo tra il classico prodotto passivo ed uno attivo, dove il secondo elemento deriva dalla maggiore complessità dell’indice da replicare. Gli Smart Beta non sono però gli Etf a gestione attiva, presente anch’essi nel panorama degli strumenti acquistabili dagli investitori. Gli Smart Beta si agganciano semmai ai fattori azionari, che non sono altro che caratteristiche comuni tra diversi sottostanti. La logica di base è costruire indici, a cui successivamente si agganciano gli Etf che devono copiarli, attraverso metodologie oggettive che permettono di avere una esposizione sempre diversificata ma differente in termini di rischio e di rendimento atteso rispetto ai classici indici di mercato.

Questi ultimi sono infatti indici market cap, dove i pesi delle azioni che compongono l’indice derivano dalla capitalizzazione di mercato delle società. Ad esempio, Apple e Amazon varranno tantissimo negli indici azionari Usa rispetto ad altri titoli statunitensi meno capitalizzati, ma altrettanto promettenti sotto certi aspetti. Un indice Smart Beta vuole quindi effettuare una selezione delle società (e successivamente dei pesi) rispetto all’indice originario, ad esempio l’S&P500, dove il portafoglio finale (che costituirà il nuovo indice Smart Beta) non conterrà più 500 titoli ma meno, in funzione dei filtri utilizzati. I filtri, ovvero la strategia adottata, possono portare ad una riduzione di rischio rispetto all’indice principale; ma alcuni indici Smart Beta sono costruiti invece per portare ad un aumento della sensitività del nuovo benchmark rispetto a quello originario, scelta adatta ad un investitore che cerca la massima performance a costo di elevati rischi. Insomma è come se una persona prediligesse l’acquisto di Snam Rete Gas piuttosto che di Azimut; il primo titolo  è adatto a difendersi ed avere esposizione non alta rispetto ai movimenti del mercato, il secondo l’esatto opposto. Gli indici Smart Beta funzionano nello stesso modo, ma a livello diversificato.

In merito alle singole strategie più utilizzate hanno avuto molto successo la Low Volatility e la Minimum Variance, che portano entrambe a valori di beta di portafoglio inferiori a 1, quindi con minor rischio rispetto al mercato. Nel primo caso si selezionano i titoli che hanno la volatilità più bassa nell’indice originario, escludendo le azioni più rischiose. L’indice S&P500 Low Volatility sarà quindi composto ad esempio da 150 azioni dell’S&P500 anziché le 500 originarie, ma questa selezione porterà (anche se maggiormente concentrata) a escursioni di rendimento molto più basse. Più complessa, ma il risultato è identico come compressione del rischio, la metodologia Minimum Variance, che tiene conto delle correlazioni tra le azioni e non solo la relativa volatilità storica. Anche nel tracollo legato al Covid19 tali strategie sono riuscite a sovraperformare il mercato di diversi punti percentuali, validando la loro scelta.

Altre strategie, o fattori, utilizzati solo la Momentum (che seleziona le aziende con i rendimenti di periodo più elevati), la Size (che seleziona i titoli a bassa e media capitalizzazione a scapito delle blue chips). In quest’ultimo caso ad esempio si ottiene un beta più alto di 1, e la strategia Size è quindi più volatile rispetto ad un indice ancorato alla market cap. Le strategie Value e Growth guardano rispettivamente alle azioni considerate a sconto in termini di multipli di Borse (prezzo/utile conveniente, etc) e a maggior tasso di crescita, nel secondo caso anche qui con un beta importante. Un fattore usato per comprimere il rischio è anche la strategia Quality, che seleziona le aziende giudicate migliori in termini di sostenibilità dei bilanci, e quindi più robuste in contesti di mercato critici. Il fattore High Dividend filtra infine i titoli in base ai dividendi storici o prospettici più elevati, per soddisfare le esigenze di coloro che cercano un flusso cedolare dalle azioni importante. Il grafico evidenzia la dinamica durante la crisi del Covid19 di due strategie fattoriali rispetto al mercato europeo, dove si evince il differente comportamento -coerente al mandato di rischio- degli indici Smart Beta.

Ultimamente si sta facendo un altro passo in termini di innovazione, creando indici che uniscono più fattori in un unico indice finale, a cui si aggancia come sempre un Etf. Le strategie multi-fattoriali possono ad esempio essere composte dal mix di un indice Low Volatility e di un indice High Dividend, dove il primo selezionare le società a minor rischio e il secondo a maggior dividendo, mirando a coprire entrambe le caratteristiche indicate. La selezione di un singolo fattore può infatti annidare sottoperformance in certi momenti di mercato, rispetto all’indice basato sulla market cap. Quando il mercato vola, ad esempio la Minimum Variance e la Low Volatility restano indietro a differenza della High Dividend che performa meglio in mercati rialzisti. L’importante è capire come si comportano i fattori nelle diverse fasi di mercato, poi la scelta del profilo di rischio a cui esporsi spetta sempre all’investitore.

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